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Beethoven - Le creature di Prometeo

In che rapporto stanno musica e coreografia in un balletto? Quanto una è al servizio dell’altra? Viene spontaneo chiederselo davanti all’unico balletto scritto da Beethoven.  

L’argomento era elevato e il progetto ambizioso: un balletto eroico e allegorico in due atti, avente come soggetto la figura mitologica di Prometeo, creatore del primo uomo, da dedicare all’imperatrice Maria Teresa, moglie di Francesco I d’Austria, ideato dal talento coreografico di Salvatore Viganò (Napoli25 marzo 1769 – Milano10 agosto 1821). Tanto ambizioso che questi, che pure, forte degli insegnamenti di composizione ricevuti dallo zio Luigi Boccherini, non disdegnava comporre le musiche per i propri coreodrammi (cioè spettacoli in cui sono fusi danza, recitazione drammatica e lavoro di regia), ritenne opportuno chiedere l’aiuto del trentenne Beethoven, il quale probabilmente trovò il soggetto consono alle proprie inclinazioni illuministe.  

La composizione avvenne tra il 1800 e gli inizi del 1801 e il balletto vide le scene all’Hofburgtheather di Vienna, il 26 marzo del 1801. Il manifesto della prima rappresentazione reca (trad. italiana):  
«I filosofi della Grecia spiegano la rappresentazione della favola [di Prometeo] immaginando Prometeo come un nobile spirito, che, trovati gli uomini del suo tempo in uno stato di ignoranza, li affinò con le scienze e con l'arte e li ammaestrò nei costumi. Muovendo da un tale principio, si rappresentano in questo balletto due statue che si animano e, per virtù dell'armonia, divengono suscettibili di tutte le passioni della vita umana. Prometeo le conduce al Parnaso per farle istruire da Apollo, dio delle belle arti; Apollo ordina ad Anfione, ad Arione e a Orfeo di ammaestrarle nella musica, a Melpomene e a Talia di farle consapevoli della tragedia e della commedia, a Tersicore e a Pan di insegnare loro la danza pastorale, di cui essi sono gli inventori, e a Bacco di insegnare la danza eroica, da lui inventata»

Fu un buon successo di pubblico e lo spettacolo ebbe più di venti repliche. Tuttavia non tutti ne furono entusiasti, se un critico del Zeitung für die elegante Welt in data 19 maggio 1801 ebbe a scriverne (trad. italiana):  
 «La musica non ha completamente soddisfatto le aspettative, nonostante alcune virtù fuori dal comune. Non mi esprimo sul fatto se Herr van Beethoven possa, a partire da un soggetto, per non dire monotono, tanto uniforme, dare soddisfazione o meno a quel che un tale pubblico chiede. Restano pochi dubbi, ad ogni modo, che la sua scrittura in questo caso sia troppo sofisticata per un balletto, e ponga troppa poca attenzione alla danza.»  

Probabilmente nemmeno lo stesso Viganò ne fu totalmente soddisfatto, tanto che nel 1813 mise in scena, alla Scala di Milano, un altro Prometeo in 6 atti con musiche tratte da lavori di Haydn (la Creazione), Wiegl, Beethoven e musiche proprie.  

Gli anni attorno al 1800 furono, per il compositore di Bonn, anni difficili: l’aggravarsi della sordità, la quale poneva ostacoli sia dal punto di vista professionale che da quello delle relazioni sociali, lo fiaccava nello spirito e lo avrebbe portato il 6 ottobre del 1802 a redigere il famoso e angosciante Testamento di Heiligenstadt. Ad ogni modo eran stati anni in cui aveva potuto chiudere lavori importanti per la definizione del proprio stile orchestrale: la prima Sinfonia, i primi tre Concerti per pianoforte, la Romanza per violino in fa maggiore. Composizioni in cui è già evidente quanto elementi più o meno semplici possano, nelle mani di Beethoven, diventare materiale di costruzione per ampie architetture sonore, capaci di vette espressive e drammatiche impressionanti ma al contempo rette da un’inattaccabile logica di fondo, per di più una logica puramente musicale. Forse proprio in questa logica, qui costretta a scendere a patti con le esigenze coreutiche, si può scorgere la principale debolezza della musica del Prometeo, se rapportata con altri capolavori beethoveniani, nonostante, ovviamente, si tratti di musica meravigliosa, sapientemente scritta, ricca di situazioni drammatiche e scelte timbriche diverse.  

La partitura è strumentata per una classica orchestra a due; due numeri richiedono inoltre arpa e corno di bassetto, strumenti inusuali per Beethoven.   La composizione si articola in una Ouverture, in un primo atto contenente un’introduzione e tre numeri e in un secondo atto di dodici numeri e un finale.  

Al primo accordo dell’Adagio dell’Ouverture è difficile non pensare all’incipit della prima sinfonia: entrambe in do maggiore, entrambe aperte dalla stessa dissonanza (anzi, qui resa pure più aspra dalla diversa disposizione accordale). In entrambe la tonalità di impianto è più una conquista che un dato di fatto. L’Allegro molto con brio che segue è in forma sonata e potrebbe essere tranquillamente la sinfonia d’apertura di un’opera italiana di Mozart. Il passaggio al primo atto avviene senza soluzione di continuità tramite un pedale tenuto dai corni. Anche senza l’indicazione “Introduzione - La tempesta” non sarebbe difficile immaginarsi una tale situazione. Si potrebbe affermare di trovarsi davanti a una prova generale della tempesta della sesta Sinfonia op. 68: stessa instabilità armonica, stesso uso massiccio di accordi di settima diminuita, figurazioni simili. Come ogni tempesta, anche questa è destinata a passare: svanisce infatti in un pianissimo, su una cadenza sospesa che collega il successivo numero (1). Questo si apre in maniera rarefatta, l’indicazione di tempo reca Poco adagio. Così come Prometeo modellò i primi uomini a partire da un elemento semplice come il fango per poi infondere loro vita con il fuoco, così Beethoven parte dai nudi accordi delle principali funzioni armoniche di do maggiore, alternandoli a silenzi sempre più brevi per giungere infine a dar vita a un energico Allegro con brio in forma di rondò (in questo numero, alla fine della prima esposizione del refrain, si può scorgere un elemento dei primi violini che 10 anni più tardi troverà posto in quel particolarissimo movimento che è l’Allegretto scherzando dell’ottava Sinfonia op. 93). Il successivo numero (2) prende le mosse da un Adagio in fa maggiore per poi tramutarsi in un dinamico Allegro con brio in re minore caratterizzato da una certa instabilità tonale. Una modulazione ci riporta in fa e collega il successivo numero (3), un rondò dalle qualità quasi di danza galante.  

Il secondo atto si apre in re maggiore. Il numero 4 è caratterizzato da un certa staticità: dopo le quattro battute iniziali (Maestoso), la musica si dipana su un lungo unisono di note brevi degli archi, la dinamica non va mai oltre il piano. L’inaspettato ingresso dell’arpa si unisce all’inaspettata e istantanea modulazione per transizione a si bemolle. Questo movimento (5) è diviso in due ampie sezioni: un Adagio in quattro quarti e un Andate quasi Allegretto in sei ottavi; si tratta del  più ricco da un punto di vista timbrico: nel numero si dispiegano un grande numero di interventi solistici dei legni a cui si interpone il timbro dell’arpa, mentre gli archi si limitano a fornire supporto armonico. La congiunzione tra le due sezioni è affidata a una cadenza del Violoncello solo, cui è affidata anche l’enunciazione, nel suo registro più teso ed espressivo, del tema in 6/8 (tema imparentato strettamente con il tema del finale) e protagonista indiscusso dell’Andante quasi Allegretto. Impossibile non pensare ai momenti più toccanti del Concerto Triplo op. 56 e, con rimpianto, a cosa avrebbe potuto significare una più ampia espressione di questo strumento in ambito solistico nella produzione beethoveniana. Il numero 6, in sol maggiore, trova un carattere quasi di polonaise; a ben vedere la melodia può essere intesa come una variazione della melodia del numero 5.
Il 7, Grave, sempre in sol, vede l’alternanza di stentoree figurazioni puntate declamate all’unisono e da spianati momenti lirici. Con le dovute proporzioni la mente corre al secondo movimento del quarto Concerto per pianoforte. L’8, un ampio Rondò, ha una concitazione degna di un finale d’opera. Con uno scarto tonale straniante il 9 si apre con un Adagio in 3/4 in mi bemolle che lascerà il posto a un 4/4 in do minore dove l’oboe è protagonista, seguito poi da un acceso e drammatico Allegro molto, che troverà calmandosi su do maggiore, stessa tonalità del successivo numero (10) una pastorale, e dei successivi due (11, 12).
Il numero 13 reca indicazione Terzetto Groteski; dopo un’introduzione all’interno del brano si possono individuare 3 momenti distinti e ognuno con tema proprio, segue una coda. Gli ultimi 3 numeri e il finale sono collegati dal punto di vista delle tonalità e portano a un accumulo di tensione che sfocerà nel Finale: il 14, solo della primadonna Cassentini, che impersonava la Creatura femminile, è in fa maggiore, e vede l’impiego del corno di bassetto; il 15,coro e solo di Viganò stesso, che interpretava la Creatura maschile è in si bemolle. Il finale è nella tonalità eroica per eccellenza: mi bemolle maggiore. Il finale è basato su un tema caro a Beethoven, che fece la sua prima comparsa nella settima delle 12 Contraddanze WoO 8, usato poi anche nelle Variazioni op. 35 per pianoforte e soprattutto nel poderoso finale della terza Sinfonia op. 55; al contrario di quanto avviene in queste due opere, il tema è direttamente esposto nella sua forma integrale. Non abbiamo qui una raccolta di variazioni in senso stretto quanto piuttosto un ampio rondò dove, ad ogni refrain, il tema subisce qualche cambiamento ed il discorso viene reso via via più denso. Come secondo couplet viene utilizzato il tema di un’altra contraddanza tratta dalla stessa raccolta, l’undicesima. Prima della conclusione viene recuperato materiale provenente dall’Allegro dell’Ouverture: il primo tema viene impiegato come soggetto per un breve momento fugato all’inizio dell’Allegro molto mentre il Presto finale fa uso di materiale sentito nello sviluppo. Un’ultima oasi di pace, data da un delicato e breve fraseggiare di clarinetti e corni precede le energiche battute conclusive di questa ampia opera, la cui importanza, oltre che nel suo valore intrinseco, risiede, forse maggiormente, nel modo in cui essa è in rapporto con l’intero corpus beethoveniano, e per le già discusse situazioni musicali che troveranno posto in opere successive e per la collocazione cronologica dell’opera: le Creature di Prometeo si collocano alla fine del cosiddetto primo periodo di Beethoven.  

Questo Prometeo può essere dunque annoverato tra quelle composizioni passate in secondo piano rispetto ad altre ma che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, anche grazie alle  celebrazioni per i 250 anni dalla nascita di Beethoven; composizioni meno frequentate dalla pratica concertistica e discografica (sebbene in tal senso l’Ouverture delle Creature abbia guadagnato una certa autonomia) che tuttavia sono stati importanti banchi di prova e strumenti di messa a punto per l’abilità compositiva del grande tedesco; composizioni senza le quali i capolavori che universalmente abbiamo amato per più di due secoli e verosimilmente ameremo ancora a lungo, avrebbero, con ogni probabilità, avuto connotati profondamente diversi.  

Fabio Gentili    

Orchestra del Conservatorio "G. B. Martini" di Bologna
M° Vincenzo De Felice, direttore
Monica Miniucchi, coreografia