Due le grandi
stagioni musicali accostate nel concerto di inaugurazione dell'anno accademico
2020/2021 che andrà in diretta streaming dalla Sala Bossi il 20 febbraio alle ore 21 sui nostri canali:
quella barocca e quella romantica. Ma due anche i protagonisti per ognuna di
queste stagioni, coppie entrambe che accostano un autore grandissimo ad un
altro, oseremmo dire, sconosciuto ai più. Insomma, un raffronto nel raffronto
conduce il programma del concerto che quest'anno è offerto da Orchestra e
solisti del Conservatorio Martini guidati, come di consueto, dal M° Alberto
Caprioli.
È nella Baviera di
fine Seicento che muove i suoi passi il più misterioso dei protagonisti di
questo programma: Giovanni Henrico Albicastro, un nome curioso che porta il
segno della passione e reverenza di molte terre d'oltralpe per il gusto
italianizzante, destinato a dominare supremo la cultura musicale europea.
Albicastro è infatti uno pseudonimo, che il teutonicissimo Johann Heinrich
ottenne latinizzando il proprio cognome, von Weissenburg, "Bianco maniero".
Albicastro, per l'appunto. Poco o nulla sappiamo della vita di questo
compositore apparentemente amatoriale, uno dei mille nomi di autori più e meno
talentuosi disseminati fra le corti e le cappelle tedesche fra sei e
settecento, divulgatori indefessi di concerti e sonate nello stile
ammiratissimo di Corelli.
In questa scia
certamente si collocano i 12 Concerti a Quatro op.7 di Albicastro, di cui verrà eseguito il
settimo in si minore. Dal celebre contrasto fra soli e tutti alla non meno
risaputa divisione in movimenti di alterno carattere ( a loro volta vivacizzati
da rapidi scarti di tempo ), dai raffinati giochi imitativi in eco al cospicuo
uso delle progressioni fino al fugato finale, tutto parla del "barocco
sobrio" del più celebre maestro romano: la prova di Albicastro certamente
ne è una pallida copia, ma non di meno degna di introdurre piacevolmente il
concerto.
Sono ben tredici le
composizioni per clavicembalo (o clavicembali) e orchestra d'archi di Bach
giunte fino a noi. Siamo tuttavia oramai abbastanza sicuri che tutti questi
lavori siano trascrizioni di precedenti concerti per flauto, oboe e violino. Ma
cosa spinse il grande Johann Sebastian a una così intensa e sistematica opera
di reinvenzione di molte sue partiture? La risposta è legata ad uno degli
aspetti più curiosi della parabola artistica di Bach. Infatti, dal 1729 al
1741, egli fu direttore del Collegium Musicum di Lipsia, istituzione musicale
fondata dall'amico e collega Georg Philipp Telemann, e fu per le esibizioni di
questa società presso il Caffè Zimmermann che adattò per il cembalo molti dei
suoi concerti , nonché scrisse tanta della sua musica profana; una produzione che ci
restituisce spesso un'inedita immagine mondana, assai divergente rispetto a
quella più tradizionale, austera e sapienziale, tramandataci, di magister
musicae e di uomo toccato dal
genio e dalla fede.
Come molti suoi
compagni, il concerto in do minore BWV1060 fu composto originariamente negli
anni passati da Bach alla corte di Kothen, in cui l'interesse del principe
verteva sopra ogni cosa sulla musica strumentale, fungendo così da pretesto e
stimolo essenziali per il genio bachiano. Nel concerto di inaugurazione del
Conservatorio sentiremo la ricostruzione della versione originale, cui si è ipotizzata
una destinazione per violino e oboe. Strutturato rigorosamente secondo i
modelli italiani, il concerto si articola in tre movimenti di alterno carattere
e in cui la combinazione concertante dei solisti assume pesi diversi: nei
movimenti estremi la fantasia divagante di matrice vivaldiana sposa il gusto
inconfondibilmente bachiano per la densità armonica e contrappuntistica
supportata dal continuum dei due soli, che non disdegnano passaggi di smaccato
virtuosismo, specialmente le evoluzioni del violino nel brillante Allegro
conclusivo. Oasi di delicati "affetti" e cuore dell'intera
composizione è certamente l'Adagio centrale in mi bemolle maggiore, in cui il
profilo di Siciliana viene eternato da uno dei temi più amabili e non a caso
celebri di Bach, cantato, stirato, adombrato, fiorito e sempre passato da un
solista all'altro lungo il sembiante di un duetto ipnotico.
Per un
caso fortunatissimo, il primo Ottocento vede concentrarsi in una manciata
d'anni i natali di alcuni dei massimi geni musicali. Si tratta dei più illustri
rappresentanti della cosiddetta prima generazione romantica: si parte nell'anno
1809 con Berlioz e Mendelssohn e si arriva due anni dopo, nel 1811 con Liszt o,
volendo spingerci oltre, nel 1813 che lega curiosamente entrambi i grandi numi
tutelari del teatro nel secolo, Verdi e Wagner. E naturalmente il 1810, che
regala al pianoforte e alla musica tutta gli ingegni sensibili di Schumann e
Chopin. Ma quest'anno di grazia dona i natali ad un altro coetaneo,
malauguratamente sacrificato da una morte davvero troppo prematura e da un
oblio ingeneroso. Norbert Burgmüller appartiene all'ampia schiera dei talenti
precocemente scomparsi e la sua breve parabola sembra ricalcare in tutto e per
tutto l'immaginario romantico dell'artista piegato dalle avversità:
figlio(entrambi i genitori musicisti e pedagoghi di un certo rilievo) e
fratello (Friedrich Burgmüller fu un valente pianista e didatta) d'arte, rivelò
ancora bambino il suo talento sia come pianista che al violino (ebbe maestri
del calibro di Kreutzer e Spohr), ma anche nella composizione. Ancora
giovinetto dovette affrontare i duri stenti sopravvenuti alla morte del padre,
poi ancora difficoltà d'ogni sorta nel proseguire la sua carriera, la
drammatica perdita della fidanzata (la famosa cantante Sophia Roland), la
depressione, l'alcolismo e per finire l'epilessia, che fu causa del tragico
epilogo per annegamento a soli 26 anni. Ma al di là delle vicende romanzesche,
così simili ai soggetti della letteratura coeva, è la musica di Burgmüller a
restituirci lo specchio accurato di un'epoca che stava transitando verso nuove
sensibilità. Ed è una musica, diversamente da quanto si potrebbe immaginare, di
notevole qualità tecnica, ispirazione e carattere, non a caso stimata da
talenti quali Mendelssohn e Schumann fra tutti, e giustamente recuperata nel
nostro concerto di inaugurazione nell'esempio della bella Ouverture "Dionys" op.5. Composta a soli quindici
anni come introduzione ad un'opera mai realizzata - soggetto tratto dalla
ballata Die Bürgschaft di Schiller - questa
ouverture guarda indubbiamente agli esempi simili del teatro di Carl Maria von
Weber, ma ambiziosamente combinati con un sonatismo di stampo beethoveniano, in
cui l'elaborazione tematica viene ricercata con la cura di una mano abilissima.
L'ouverture si apre con un ampio Adagio Grave che introduce ad un Allegro
agitato in fa minore teso da febbrile nervosismo, interrotto solo dal bel
secondo tema colorato dal vociare dei legni. Il brano scorre così senza
problemi fino alla grandiosa stretta finale. Insomma, l'opera fresca di un
giovane creatore che avrebbe certamente avuto molto altro da dire, ma che, in
ogni caso, contribuì non poco a quella rivoluzione romantica che i suoi più fortunati
e celebri compagni di strada stavano compiendo, anche grazie la grande
impressione che la sua musica seppe suscitare in loro.
Oggi fatichiamo a
credere che lavori come Orpheus,
Les Preludes o Mazzeppa, immortali nel loro fulgido fascino
sonoro, possano essere stati accolti dallo sconcerto, se non proprio dal
rigetto di pubblico e critica. Ma dobbiamo anche pensare che lavori per noi
dati per scontato, punti fermi del sinfonismo romantico, nacquero in seno ad
una avanguardia musicale di cui Liszt era espostissimo alfiere, nonché in una polemica intellettuale accesissima
sul rapporto ideale tra forma e contenuto delle creazioni artistiche. I dodici Poemi
Sinfonici che il compositore
ungherese licenziò nel decennio 1848-1858 entravano ideologicamente a gamba
tesa nella questione, proponendo un superamento della forma sinfonica classica
attraverso un forte sostegno di suggestioni extramusicali. In verità, come era
stato per il Beethoven della Sinfonia Pastorale, anche Liszt sembra ambisca alla formula
"più espressione del sentimento che pittura di suoni". E'
comprensibile quindi che molte delle prefazioni scritte ai suoi poemi, più che
svelare una narrazione, esprimano o descrivano contesti e impressioni generali.
Con buona pace della bagarre dell'epoca, infatti, è molto probabile che il
contenuto extramusicale dei Poemi Sinfonici sia più un pretesto che una reale
esigenza, un
contentino alla facile deriva fantastica del gusto di un pubblico che in quegli
anni, nell'Europa continentale, cominciava a massificarsi.
Orpheus venne eseguito il 16 febbraio 1854 come
introduzione alla prima a Weimar dell'opera Orfeo ed Euridice di Gluck. Il lavoro risente degli
esperimenti che Liszt poteva condurre con l'orchestra di corte grazie la
presenza di strumentisti fra i più celebri e dotati dell'epoca: la composizione
dei poemi, infatti, avveniva tramite un singolare confronto
"laboratoriale" del compositore - per molto tempo poco sicuro nella
tecnica d'orchestrazione - con i consigli di virtuosi quali il violinista
Joseph Joachim e l'arpista Jeanne Pohl, nonché di alcuni suoi collaboratori. Questo è particolarmente
vero in Orpheus: la presenza di ben due arpe, ad evocare
il suono della lira del mitico cantore, si segnala immediatamente nello
schiudersi del tema iniziale, ben presto raccolto dal lungo solo del violino.
Il trascolorare di due temi fra uno strumento e l'altro produce magie
coloristiche in un tessuto orchestrale che si mantiene, quasi per tutta la
durata, fermo e affascinato dalla pura bellezza dei temi stessi. L' accumulo
sfoga quindi in un'intervento a piena orchestra, ma è un breve momento che
subito si ripiega in un commento dolente del corno inglese. Il brano si consuma
quindi ieratico, nella rarefazione di un luminoso corale degli archi (con
sordina) e legni divisi.