In una Europa
dilaniata dalla guerra, nel 1917 Maurice Ravel licenzia l’originale pianistico del suo Tombeau
de Couperin.
In una Europa su cui le ombre del nazismo si fanno sempre più lunghe, nel 1933
l’esule tedesco Kurt Weill licenzia a Parigi la sua seconda
Sinfonia.
Pure la Passio Christi di Paolo Molinari vede la luce, in questo 2021, in un momento
drammatico.
Imitazione di
una suite barocca, il Tombeau de Couperin è un omaggio al compositore e
clavicembalista François Copuerin, detto “il Grande”; tuttavia, come aveva pianificato e in parte stava
realizzando il collega e rivale Debussy con le sei sonate (di cui solo tre
furono scritte: quella per violoncello e pianoforte, quella per violino e
pianoforte, quella per arpa, viola e flauto) è anche un omaggio alla musica
francese tout court di due secoli antecedente. La versione pianistica incorpora
tre movimenti di danza (Forlane, Rigaudon, Minuetto) e tre pezzi tipici della
letteratura per tastiera (Preludio, Fuga, Toccata); forme tutte, ad ogni modo,
consacrate e cristallizzate; ciascun brano è dedicato a uno degli amici del
compositore caduti sul fronte, tra cui il marito della pianista Marguerite
Long, protagonista nel 1919 presso la parigina Salle Gaveau della prima esecuzione
del Tombeau stesso. La composizione non sembra riflettere il momento drammatico
e doloroso, per il mondo e per Ravel (che, oltre all’angoscia per la guerra cui partecipò
in prima persona, nel gennaio del ’17 perse la madre, fatto che
lo gettò in una “orribile disperazione”), in cui vide
la luce. Al contrario in ogni pezzo si trovano accenti scintillanti. La
versione per orchestra, completata nel 1919, enfatizza questa caratteristica:
da una compagine tutto sommato non troppo diversa da quella classica, con
virtuosismo di scrittura e virtuosismo richiesto agli strumentisti, Ravel
riesce a ottenere sonorità brillanti e cangianti, rese con una coerenza e
naturalezza che ha del miracoloso.
Dei sei brani
pianistici solo quattro sono orchestrati; nell’ordine: Preludio, Forlane, Minuetto,
Rigaudon.
Il preludio si apre col famoso (e temuto) solo di oboe che verrà riproposto
lungo tutto il pezzo, che conferisce al brano una brillantezza dal sapore
arcaico.
La Forlane si
apre con un tema dal ritmo ricercato e un poco spigoloso, sospeso tra mi
maggiore e mi minore dorico; formalmente sembra di trovarsi davanti a una danza
con trio e ripetizione senza ritornelli della prima parte, il tutto seguito da
una ampia coda.
Il terzo pezzo, costellato di soli di legni, è il Minuetto con il suo trio
e la sua elaborata ripresa.
Il Rigaudon
conclusivo si apre energicamente a piena orchestra, in do maggiore, quasi a
dipingere una scena di vivace frenesia; si contrappone una magica sezione
centrale che evoca atmosfere notturne e quasi esotiche, dove un dialogo, prima
di oboe e corno inglese, poi di flauto e clarinetto, è accompagnato dal placido
pizzicare degli archi e arpa, come se si trattasse della sublimazione di una
serenata; così come il pezzo era cominciato così si conclude, su un fortissimo
in do maggiore.
La seconda
Sinfonia di Kurt Weill è un brano di musica assoluta di un compositore che si
era imposto autorevolmente nel campo del musica teatrale e che poteva vantare
collaborazioni con figure culturali di spicco, primo fra tutti Bertold Brecht.
Forse proprio questa familiarità col teatro, insieme alla concisione e
chiarezza formale apprese alla scuola di Busoni (di cui Weill era stato allievo
per ben tre anni), è all’origine della schiettezza e della
facilità comunicativa di questa musica che, come il Tombeau de Couperin e in
contrasto coi gigantismi orchestrali di stampo tardo romantico prima ed
espressionista poi, impiega un’orchestra classica con fiati a due.
E nonostante questa familiarità col teatro questa è musica che non è mai retta
da idee programmatiche, tanto che Bruno Walter, direttore della prima
esecuzione e figlio di una tradizione tardo romantica, chiedendo al compositore
un titolo descrittivo per la sinfonia non ottenne altro in risposta che un
generico e schumaneggiante Symphonische Fantaisie.
Articolata in
tre movimenti chiusi, secondo il classico schema di un tempo lento tra due
tempi veloci, la sinfonia presenta ad ogni modo momenti dalle tinte
drammatiche, in particolare modo nel primo movimento. L’introduzione, tradizione che risale a
Haydn e Beethoven, reca indicazione di tempo Sostenuto, è permeata dal
ritmo di cinque note dell’incipit e vede un lungo ed espressivo
solo di tromba che, modulando, porta al seguente Allegro molto che, pur
essendo in forma sonata, segue percorsi tonali sorprendenti. Momenti di grande
enfasi e urgenza si alternano a momenti di limpida cantabilità; un passaggio
notevole si trova poco prima dell’energica conclusione, dove un
discorso intessuto dai fiati si appoggia su di un delicato e trasparente ritmo,
quasi di bolero, degli archi.
Il secondo
movimento (Largo) è imperniato su un tema puntato che porta con sé echi quasi di marcia funebre. L’inizio
stentoreo presenta una certa ambiguità tra modo maggiore e minore;
quando lo
spessore orchestrale si assottiglia, dopo un discreto fraseggiare di
violoncello solo e flauti, possiamo sentire un solo di trombone su uno sfondo
uniforme, momento che, con le dovute proporzioni, ad alcuni commentatori ha
ricordato il solo di tuba in Bydlo dai Quadri di un’esposizione nell’orchestrazione di Ravel. Weill mostra
una certa abilità nel combinare i temi man mano presentati, tanto che il
discorso si snoda sempre in maniera coerente ed efficace sin dal primo ascolto.
Il movimento termina quietamente con il materiale iniziale sopra un ostinato
di timpani che sposta l’attenzione sulla scansione ritmica
dell’accompagnamento; questa sorta di idea circolare, cioè di
concludere il movimento con la reminiscenza dell’inizio, e la scansione ritmica stessa
sembrano rendere omaggio all’Allegretto della settima Sinfonia di
Beethoven, uno dei momenti universalmente più amati della storia della musica.
Il movimento
conclusivo porta indicazione di tempo Allegro vivace. Si tratta di un
rondò dal carattere spigliato, con passaggi di una vivacità quasi mozartiana
dove non si lesina un impiego virtuosistico degli strumenti a fiato e un certo
impegno tecnico per l’intera orchestra. A momenti l’atmosfera
assume una certa tinta grottesca, ad esempio nella sezione Alla marcia e
nella parossistica tarantella che, su un deciso accordo di do maggiore,
conclude l’intera sinfonia.
Fresca di
composizione, la Passio Christi di Paolo Molinari reca la dedica
nientemeno che a Igor Stravinsky, a pochi giorni dal cinquantesimo anniversario
della scomparsa. E volendo, sin dall’iniziale Allegro sostenuto ed
energico, vuoi per le sottigliezze ritmiche, per il massiccio uso degli
ottoni e per una certa vicinanza tematica, il compositore, facendo propri tutti
questi elementi, sembra effettivamente evocare lo spirito del grande russo all’epoca
dei suoi grandi balletti parigini. Sette i momenti che, nel brano, si
susseguono senza soluzione di continuità, ciascuno dotato di una propria
distintiva atmosfera pur mantenendo una coerenza tematica lungo il dipanarsi
del discorso musicale. Prima del Maestoso conclusivo, caratterizzato da una
poderosa verticalità ritmica, abbiamo la ripresa del materiale dell’inizio.
L’impasto orchestrale sembra voler pure rendere omaggio alle
soluzioni coloristiche proprie di un altro grande russo, Alexander Scriabin.
Il concerto si
snoda quindi in un programma variegato, per stili e sonorità, e vede
protagonisti una pietra miliare del repertorio (Ravel), una novità assoluta
(Molinari) e una rarità (Weill).
Impegnata nell’esecuzione è l’Orchestra Senzaspine, realtà
bolognese nata nel 2013 e ormai affermata sul territorio e a livello nazionale;
realtà che sin dai primi mesi di vita collabora attivamente con il
Conservatorio.
Sul podio
troviamo la nostra laureanda al Biennio di Direzione d’Orchestra Alissia Venier, musicista
che può vantare esperienze professionali nazionali e internazionali e, nel
2018, insignita del prestigioso Premio Nazionale delle Arti.
Fabio
Gentili